7.11.06

C'era una volta a Roma un bambino nato senza respirare (prima parte)

Quel bambino ero io. Non volevo nascere, qualcosa doveva avermi insospettito.
Ho deciso di fare mia questa frase (in realtà di Achille Occhetto, che così si presenta nel suo libro "Secondo me" edito da Piemme) da quando ho preso definitivamente coscienza di come vanno le cose in questo mondo. Ma avremo il tempo di tornarci sopra.
Ritengo sia il momento giusto per le presentazioni che saranno, deliberatamente, più estese di quelle stringate e asettitiche che si inviano alle aziende, infarcite di episodi legati alla mia vita privata oltre ché professionale.


Sono nato a Roma il 15 marzo 1965, alle 21 e 40 di un freddissimo lunedì (adoro il freddo, la neve, la montagna, mal sopporto il caldo e l'appiccicaticcio della salsedine marina: vedete come tutto torna?), con 15 giorni di ritardo rispetto al previsto, con il cordone ombelicale intorcigliato alla gola, sotto il segno dei Pesci ascendente Scorpione, in una clinica nei pressi della Stazione Termini ora sede della Facoltà di Psicologia dell'Università La Sapienza.

Nasco con la matita tra le mani (il disegno è stata sempre una mia passione ed è qualcosa che mi è riuscito straordinariamente bene fin dall'età prescolare) tant'è che quando non ne una tra le mani, passo il tempo a tracciare nell'aria, con le dita, forme immaginarie. Quando i miei la sera guardavano la televisione, io per ore disegnavo consumando una straordinaria quantità di fogli di carta.

Il mio approccio con la scuola parte bene. Siamo nel 1970 e all'asilo, ed oltre a piempire di bastoncini interi quaderni a quadretti (che noia, a 5 anni già disegnavo automobili...) lavoriamo come giardinieri e piantiamo alberi. In quell'asilo, ce n'è uno piantato da me che conta ormai quasi 27 anni.

Le elementari e le medie, scorrono senza problemi, con gioia e serenità. La maestra prima (la compianta Matteucci) ed i professori poi, sono molto bravi: fin da subito, le materie che più mi attraggono e sulle quali mi applico di più sono l'italiano, la geografia (a proposito, un'altra mia passione erano gli atlanti geografici e le mappe autostradali che mi portavo ovunque e sui quali studiavo e viaggiavo con la mente, preludio di quanto mi sarebbe accaduto lavorando), le applicazioni tecniche e artistiche (ovvio, si disegnava), la musica ed il francese.
Ricordo ancora il pianto che mi feci all'inizio delle medie quando alle varie sezioni vennero abbinate le lingue straniere. Io avrei voluto fare inglese, ma a me toccò il francese. Alla fine ne fui contentissimo: il mitico prof. Prano, con il suo metodo di studio, insegnò a tutta la classe a parlare francese, ma sul serio. Personalmente, mi sono innamorato della lingua e della sua pronuncia che era talmente buona (a suo dire) che mi venne chiesto di andare in giro per le altre classi per farla ascoltare.
Oggi è la lingua straniera che meglio padroneggio e che tanto mi è servita nelle mie trasferte di lavoro.

Gli unici problemi erano con l'aritmetica (che dal secondo anno delle medie si sarebbe chiamata matematica): il continuo cambio di professori mi fece perdere il bandolo della matassa che ancora oggi stento a ritrovare.
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